“Salimmo lentamente le scale, io e Jordan, abbracciati, ed entrammo in una spaziosa biblioteca gotica, con pannelli intagliati di quercia inglese, probabilmente trasportata intatta da qualche castello in rovina. Nella semioscurità della stanza, un giovane, più o meno della mia età, in un elegante smoking bianco, stava osservando i fuochi d’artificio che esplodevano ai suoi piedi, mentre la gente si faceva a pezzi con l’alcol e con la musica. Si voltò, lentamente, e mi sorrise. Sorrise con aria comprensiva, molto più che comprensiva.
Era uno di quei sorrisi rari, dotati di eterno incoraggiamento, che s’incontrano quattro o cinque volte nella vita. Affrontava – o pareva affrontare – l’intero eterno mondo per un attimo, e poi si concentrava sulla persona a cui era rivolto con un pregiudizio irresistibile a suo favore. La capiva esattamente fin dove voleva esser capita, credeva in lei come a lei sarebbe piaciuto credere in se stessa, e la assicurava di aver ricevuto da lei esattamente l’impressione che sperava di produrre nelle condizioni migliori. Esattamente a questo punto svaniva, ed io mi trovavo di fronte a un giovane elegante che aveva superato da poco la trentina e la cui ricercatezza nel parlare rasentava l’assurdo. Già prima che si presentasse, avevo avuto l’impressione precisa che scegliesse le parole con cura.
Come ti trovi qui, vecchio mio? Sono stato io ad invitarti, credevo lo sapessi. Temo di non essere un buon padrone di casa, dopotutto.
Mi chiamo Gatsby, Jay Gatsby…”
Uno stile fascinoso e immediatamente seduttivo, ma limpido e asciutto, che Hemingway tenterà sempre di imitare senza mai riuscire. È così che Francis Scott Fitzgerald narra la più spettacolare delle feste che mai la letteratura del Novecento abbia saputo evocare. Una di quelle che – scaturita dalla brama di vivere dei Ruggenti Anni Venti – diventerà presto metafora di vita. Di un cammino precipite e senza respiro verso la follia e la disumana disintegrazione d’ogni speranza all’alba del secondo conflitto mondiale.
Perfetto protagonista di quegli anni Fitzgerald replica costantemente, in questo come in altri romanzi, la sua avventurosa biografia. Egli diviene autentico alter ego del protagonista, il gangster Jay Gatsby, che disperatamente insegue il suo adolescenziale sogno d’amore: la bella e viziata Daisy. Un sogno che sarà brutalmente troncato dal cinismo che contraddistingue i ricchi.
Gatsby diviene gangster e contrabbandiere per raggiungere quella ricchezza con la quale tentar di conquistare Daisy. Ed è allo stesso modo che lo scrittore, che era stato già respinto da Zelda quando il suo primo romanzo Di qua dal Paradiso era stato inizialmente rifiutato dall’editore, per assecondare il gusto del lusso della sua adorata sposa, si piegherà a scrivere un profluvio di nuovi racconti.
I lautissimi proventi che ne otterrà saranno tutti dilapidati proprio per soddisfare le brame di mondanità e sperpero della bella Zelda.
Il Grande Gatsby, tra trasgressione e sete di vita
In tutta l’opera di Fitzgerald le feste sono centrali. Sontuose e folli, caotiche e animate da fiumi d’alcool, ritmate dal Ragtime e dal Charleston.
Feste nelle quali, come scrisse il critico Edmund Wilson, “la gente si scatenava come fuochi d’artificio e restava fatta a pezzi”.
Esse diverranno la trasparente metafora non solo ed esclusivamente della sete di vita e trasgressione dopo gli abissi della Grande Guerra, dove tanti giovani americani, come Ernest Hemingway, avevano sofferto o perso la vita e l’innocenza. Ma saranno soprattutto emblema della crudele apparenza d’un mondo spietato contro i poeti e i sognatori, che dopo averli attirati e sedotti li tritura con cinica crudeltà e rapida indifferenza.
Alla fine Gatsby paga con la vita, innocente vittima immolata sull’altare d’un sogno. L’indifferente Daisy, con lo stolido e ricchissimo marito – che ha volontariamente armato la mano del suo assassino – l’ha già abbandonato al suo destino per l’ennesimo, frivolo viaggio in Europa. È allora che trionfa, pur tuttavia malinconicamente, il potere incantatorio d’una pura illusione – d’Amore come di romantica fanciullezza. Illusione che sigla con definitiva e lucida esemplarità la parabola eterna del Sogno:
“E mentre meditavo sull’antico mondo sconosciuto, pensai allo stupore di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde all’estremità del molo di Daisy. Aveva fatto molta strada per giungere a questo prato azzurro e il suo sogno doveva essergli sembrato così vicino da non poter sfuggire più. Non sapeva che il sogno era già alle sue spalle…
Gatsby credeva nella luce Verde, il futuro orgiastico che anno dopo anno indietreggia davanti a noi. C’è sfuggito allora, ma non importa: domani andremo più in fretta, allungheremo di più le braccia, e una bella mattina…
Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel Passato”.