Peggio che anonimo o prematuramente defunto, Antonio Costa, nato a Zurigo da Maria Elisabetta Costa – ragazza madre, analfabeta, bellunese di nascita e nomade per necessità – poi sposata frettolosamente col sarto Bonfiglio Laccabue, nativo di Gualtieri, nella bassa Reggiana ed emigrato in Svizzera in cerca di fortuna, rifiuterà sempre il cognome dell’esecrato padre adottivo, reo ai suoi occhi d’aver procurato la morte per avvelenamento della madre e dei tre fratelli, ribattezzandosi autonomamente Ligabue per ribellione salvifica dagli orrori quotidiani e per segnare il distacco completo da una famiglia dolente e dolorosamente latitante.
Pressoché autodidatta, perlomeno fino all’incontro col pittore Marino Mazzacurati – maestro eclettico della Scuola Romana – che ne comprenderà e istruirà il talento, Antonio, fra ripetuti ricoveri in ospedali psichiatrici e ospizi di mendicità, inizierà una straziante e sorprendente carriera d’artista, che trasformerà demoni infantili ed ossessioni quotidiane in sublimazioni animali e in scenari di suggestiva qualità oniricatrasformerà demoni infantili ed ossessioni quotidiane in sublimazioni animali e in scenari di suggestiva qualità onirica.
Al pari di molti bambini e adolescenti da letteratura clinica – che brutalizzati dalla vita e dagli adulti non si riconoscono come esseri umani autonomi – Ligabue realizza decine di autoritratti di potente intensità che sembrano invocare lo sguardo altrui come prova e testimonianza del proprio status d’esistenza, perché solo se mi guardi, io esiterò davvero per te, e per tutti.
La modalità rituale e l’attuazione simbolica sono esattamente le stesse di quelle dei tantissimi autoritratti di Vincent van Gogh, che in realtà Ligabue conobbe solo molto tardi e con il quale la derivazione non è diretta ma solo dovuta a consonanza di affini drammi psicologici e umani.
Nel celeberrimo Autoritratto con Sciarpa Rossa del 1956, il geniale artista di Gualtieri guarda con sguardo in tralice – esattamente come quello dei più celebri protagonisti delle opere di Antonello da Messina – verso lo spettatore, mostrandosi con orgogliosa e sofferta autocoscienza nella sua dirmata autenticità. Scarno, emaciato, ferito e barbuto, in un campo di granturco di vangoghiana memoria, è sovrastato da un rapace in volo, come un palese presagio di morte.

Ma Antonio Ligabue sa esattamente che gli animali da preda, temuti e spregiati da tutti non saranno mai suoi nemici, fratelli e compagni di sofferenze quotidiane non meno di lui.
Sono solo gli umani – ciechi e ottusi ad oltranza – ad esser i suoi veri carnefici.