Dalla passerella allo scroll: cosa ha fatto davvero il web alla moda?

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In pochi anni la moda ha smesso di essere un linguaggio artistico per diventare un flusso incessante di contenuti. Spinta dalla velocità del web e ingabbiata nei formati social, l’industria dell’estetica si è piegata alla logica degli algoritmi, sacrificando il racconto in favore della performance, l’unicità in favore della viralità. In questa riflessione lucida e provocatoria, Ida Galati ci accompagna in un viaggio dentro le crepe di un sistema che ha dimenticato come si sogna — e ci chiede se è ancora possibile tornare a farlo.

Anni fa la moda era ancora un’industria dello stupore.
Oggi è diventata una creatura accelerata, stanca, famelica.
Cambia pelle ogni mese, come se volesse salvarsi da qualcosa. O da se stessa.

I social media — quei teatri infiniti dove tutti possono essere spettatori e protagonisti insieme — hanno riscritto le regole.
Ma il cambiamento non è solo tecnologico. È antropologico.

LA MODA AI TEMPI DELL’ALGORITMO

Una volta le collezioni nascevano due volte l’anno, tra schizzi a mano, riferimenti culturali, silenzi meditativi.
Ora nascono ogni settimana, impacchettate in trend virali da 15 secondi.
TikTok ha ridotto la moda a hashtag, “core”, challenge.
Barbiecore, blokette, balletcore, mob wife aesthetic: ogni cosa è moda, ma niente dura.

La moda è diventata contenuto.
Non più storia, ma stimolo.
Non più visione, ma velocità.

LA DEMOCRAZIA (APPARENTE) DELL’ESTETICA

Sulla carta, oggi la moda è più inclusiva: tutti possono parlare, sfilare, commentare.
Ma nel profondo, il potere è cambiato volto, non natura.
A dettare lo stile non sono più le maison, ma gli algoritmi.
Non vince chi osa di più, ma chi funziona meglio nell’home page.

Il risultato? Un conformismo travestito da libertà.
Abiti scelti per “fare views”, non per raccontare se stessi.
Una corsa all’omologazione che profuma di unicità, ma puzza di fotocopia.

MODA E MONDO: QUANDO IL CONTENUTO IGNORA IL CONTESTO

Nel frattempo, fuori dallo schermo, il mondo brucia.
Letteralmente.

Mentre scrolliamo il video di una influencer in denim cargo e felpa oversize, un missile cade su una scuola a Gaza.
Mentre il Met Gala si traveste da favola botanica, in Sudan muoiono bambini dimenticati.
Mentre Dior celebra l’heritage, milioni di capi invenduti finiscono nel deserto cileno, a formare montagne tossiche che nessuno guarda.

La moda — che un tempo raccontava i traumi collettivi attraverso la stoffa — oggi spesso finge di non vedere.
Nel tentativo di restare desiderabile, evita l’ombra.
Ma senza l’ombra, la bellezza è solo estetica.
E l’estetica, senza etica, è pubblicità.

LA FINE DELL’INCANTO: COSA CI RESTA?

In questi ultimi cinque anni abbiamo scoperto che la moda può anche esistere senza passerelle.
Che una ragazza in salotto può influenzare più di un direttore creativo.
Che l’unico archivio davvero attivo è il nostro rullino.

Eppure ci manca qualcosa.
Ci manca l’attesa. Il tempo di desiderare.
Ci manca il silenzio. La ritualità. Il gesto che non deve per forza essere condiviso.
Ci manca la moda come racconto del mondo, non come distrazione da esso.

E ORA?

Ora la moda ha davanti a sé un bivio: continuare a rincorrere l’algoritmo, o riscoprire il coraggio di rallentare.
Tornare a parlare davvero.
Di corpo, di politica, di sogni, di rabbia.
Perché non serve più solo un bel vestito. Serve un vestito che significhi.

Serve una moda che non tema di stare fuori moda, se è lì che abita la verità.

 

 

Ida Galati