Belle & Sebastien

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Di Andrea Festuccia

Belle & Sebastien.

Esce nei cinema italiani il film sulla grande amicizia fra Sebastien, un bambino cresciuto senza i genitori, e il cane Patou Belle: un legame più forte degli orrori della seconda guerra mondiale.

 

Forse l’immagine più nitida di Belle & Sebastien è in realtà l’incipit di una canzone, “Belle e Sebastien in mezzo ai prati giocano e poi tornano in città….” , quella cioè della serie televisiva anime giapponese del  1981 sul più famoso cane dei Pirenei e il suo piccolo padrone. Ma il libro scritto da Cécile Aubry negli anni Sessanta ha ispirato anche una fortunata serie televisiva, il cui protagonista allora bambino, Mehdi El Glaoui, oggi è uno dei personaggi del nuovo film di Nicolas Vanier, il regista che ha preteso di girare Belle & Sebastien in tre stagioni diverse e dargli una nuova ambientazione. Altri i fan Belle and Sebastian, l’apprezzato gruppo indie pop scozzese creato nel ’96 da Stuart Murdoch.

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La trama: durante la Seconda guerra mondiale, in un piccolo e tranquillo villaggio sulle Alpi scosso dall’arrivo dei tedeschi, un gruppo di cacciatori è sulle tracce di un grande cane dei Pirenei ritenuto un pericoloso predatore. Il cane, una femmina che verrà battezzata Belle, troverà protezione grazie a Sébastien, un bambino cresciuto senza genitori. L’amicizia tra Belle e Sébastien spinge il piccolo a mettersi in cerca della mamma, che lo ha abbandonato ancora in fasce.

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“All’inizio delle riprese dovevo lasciare che i cani mi leccassero – racconta Félix Bossuet, il piccolo interprete di Sebastien – e solo dopo ho avuto il permesso di accarezzarli. Sul set insieme a me c’erano gli addestratori e tre cani in tutto; alcuni attori mi hanno dato dei consigli: Mehdi (André nel film) mi ha detto di non fissare la persona con cui stavo parlando ma di guardarlo di lato così che non si sarebbe visto troppo il bianco dell’occhio ma poi, in realtà, ho seguito il suo consiglio solo una o due volte. Tchécky (César), invece, mi ha spiegato che se non riuscivo a piangere era meglio che non lo facessi proprio piuttosto che sforzarmi”.