Lo sguardo forse più ironicamente seducente e ipnoticamente fascinoso della pittura spagnola del Siglo de Oro ma probabilmente dell’intera arte tardo secentesca europea appartiene ad una giovanissima fanciulla che – assieme alla madre – sembra guardare fissamente – divertita e gioiosamente seduttiva – l’incauto spettatore.
Dopo i trionfi e le arditezze di Velàzquez e le intense meditazioni pittoriche di Francisco de Zurbaran, Bartolomè Esteban Murillo offre ai suoi conterranei devozione senza dramma e realtà quotidiana da vicolo cittadino, ritraendo mendicanti e bambini stracciati con intelligente e mai enfatica partecipazione.
Ed esattamente alzando lo sguardo in una assolata mattina del 1660 in uno dei quartieri popolari di Siviglia, schiamazzanti e rumorosi delle grida degli acquaioli e dei giochi dei monelli da strada, avremmo incontrato un’invitante finestra aperta dove – con perfetta resa teatrale – una ragazza pallida e con un sorriso d’accattivante sfida si protende verso di noi, mentre una donna più matura sembra pudicamente coprirsi le labbra – anch’esse sorridenti – con un lembo della cuffia.
La scena è ben familiare ai contemporanei del pittore sivigliano: alla finestra – così insolitamente dischiusa e non gelosamente serrata come di consueto in una città spagnola d’età barocca – s’affaccia invitante una giovane prostituta mentre alle sue spalle occhieggia appena la madre e probabile mezzana, che emerge con squisita e calcolatissima sapienza pittorica dalla stanza in ombra.
La pennellata liquida e densa, filamentosa e grassa di Murillo eredita – certamente – quella di Velazquéz e la lontana suggestione dell’arte di Caravaggio, ma la reinventa con apparente, sapientissima semplicità: il gusto teatrale della Spagna di Calderòn della Barca e Cervantes, Lope de Vega e Quèvedo si adatta e consacra nelle sue tele geniali.
Con silenziosa intelligenza e senza strepito di retorica, Bartolomè Esteban saprà conquistare la gloria familiare – e imperitura – dei geni autentici.






