Mai, come in questi giorni d’assoluta e sospesa immobilità, cristallizzata in un’eterna sequela d’attimi sempre eguali, la suggestiva e inquieta poesia delle immagini di Edward Hopper sembra esser la perfetta cronaca della nostra amara contemporaneità.
Amante della miglior pittura francese, la cui passione era stata indotta dall’incoraggiamento e dall’approvazione dei genitori che scoprendo il talento nel disegno del piccolo Edward gli avevano donato libri e riviste d’arte, oltre che dal suo primo insegnante d’arte a New York, William Merritt Chase, seguace delle tecniche e delle idealità dell’Impressionismo, Hopper si recherà per ben tre volte a Parigi, a partire dal 1906, preferendo purtuttavia dipingere con assoluta libertà e solitudine, senza condizionamenti di scuola e senza entrare – al pari di altri giovani aspiranti artisti americani – in qualche banale atelier come ve n’erano tanti allora nella capitale francese.
La Parigi ritratta dal pennello di Hopper è – significativamente – una Parigi minore ed antieroica, dimessa e lontana da ogni corriva celebrazione oleografica, solitaria e senza scorci di patinata bellezza: boulevard e lungosenna silenziosi, Notre Dame vista dagli archi rampanti dell’abside e quasi tagliata dai muraglioni del fiume, palazzi rococò silenti e pressoché melanconici.
Ma saranno le sue celeberrime figure di donna, più ancora dei suoi protagonisti, ad apparir eternamente prigioniere d’una sottile inquietudine, incapsulate in una bolla silente d’estraneità allusiva e immerse in contesti urbani o domestici, o meglio familiari, dove emerge tutta la loro estraneità e dolente incomunicabilità. Ed anche se misteriosamente fascinose, sulla porta della loro casa o incongruamente nude e solitarie nella loro stanza o sedute in sottoveste sul letto dinanzi ad una finestra che lascia dilagare la luce del primo mattino, o ancora sedute accanto ad un uomo addormentato e manifestamente estraneo, non sembrano voler sciogliere il loro malinconico enigma ed il loro ostinato silenzio.
Era quasi fatale che le immagini di Hopper diventassero – per la loro perentoria qualità cinematografica ed il loro ardito taglio fotografico – una fonte primaria d’ispirazione per i migliori cineasti americani, e non solo: dall’esplicito omaggio di Alfred Hitchcock, che in Psyco modella la Casa di Norman Bates sulla vecchia casa georgiana dell’iconica tela Casa sulla Ferrovia o le scene di Giungla d’Asfalto di John Huston o ancora, il memorabile inseguimento dell’aereo che sparge insetticida sul malcapitato Cary Grant in Intrigo Internazionale che ha luogo in una strada solitaria presa di peso dalle tele dell’artista statunitense fino ad arrivare all’inattesa citazione del celeberrimo bar notturno della tela I Nottambuli nel geniale noir di Dario Argento Profondo Rosso, nella scena dove i due protagonisti si dirigono al Blue Bar.
Ancora una volta, senza arrivare alle iconiche simbologie di Giorgio De Chirico o Reneè Magritte, l’artista americano seppe far passare la sua amara visione del mondo e dei rapporti umani in maniera dimessa ma non per questo meno intensa e folgorante, additando – a contemporanei e posteri – i demoni e le insidie dell’ormai incipiente civiltà di massa.