Quando, all’incirca alle sette e trenta del mattino del 21 agosto 1911, l’imbianchino e decoratore varesotto Vincenzo Peruggia si allontana con passo tranquillo, nascondendo agevolmente sotto il camiciotto turchino da operaio la tavola della Gioconda appena privata di vetro e cornice per raggiungere in taxi la sua stanza in affitto a Rue de l’Hospital Saint Luis e poi ritornar tempestivamente al Louvre dove lavora nella manutenzione interna del Museo parigino, quell’atto non è che l’ennesimo – e non meno clamoroso – furto d’un capolavoro dall’alba della Storia.
Dalle spoliazioni dei Romani fra Repubblica e Impero, letteralmente ossessionati dall’arte scultorea della Grecia appena conquistata al punto non soltanto di razziare sculture d’autore ma da incentivare un fiorentissimo mercato di copie o di falsi spacciati per autentiche opere elleniche, alle brutali appropriazioni naziste di beni artistici ad opera del famigerato Einsatzstab Reichsleiter Rosemberg l’ente razzista divenuto il paravento per legalizzare le sanguinose requisizioni d’opere d’arte ai danni delle famiglie di raffinati collezionisti ebrei inviati alle camere a gas per alimentare l’ingorda brama compulsiva del Reichsmarschall Hermann Goering, la storia europea passata e presente – e non solo lei – conosce migliaia di crudeli e indebite sottrazioni di capolavori noti e a tutt’oggi ancora sconosciuti.
Alcuni di questi, compiuti senza spargimento di sangue e senza violenza ma anzi degni d’un Lupin, continuano a sedurre il pubblico sia per la genialità o per l’azzardo dell’azione delittuosa che per la vittoriosa opera di recupero ad opera delle forze investigative.
Basti pensare allo sconcertante furto, a tratti acrobaticamente rocambolesco – la notte fra il 5 e il 6 febbraio 1975, perpetrato nel magnifico Palazzo Ducale di Urbino – di tre opere miliari del Rinascimento europeo: la Muta di Raffaello Sanzio, la Madonna di Senigallia e la Flagellazione di Piero della Francesca in una sala priva – allora – di telecamere e d’un sia pur primitivo sistema d’allarme, che solo grazie alle tenaci indagini dell’appena costituito nucleo per la Tutela del Patrimonio Culturale dell’Arma dei Carabinieri sarà possibile recuperare con l’abile inganno da parte degli inquirenti di fingersi spregiudicati compratori.
O ancora l’oscura vicenda – avvolta tutt’oggi da inquietanti interrogativi che resistono ad ogni indagine pur accurata – che coinvolge il furto ed l’inaspettato recupero di una delle tele più fascinose della Secessione Viennese.
Sottratto nel febbraio del 1997 dalla prestigiosa Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi di Piacenza proprio in occasione d’una sua prossima esposizione, il Ritratto di Signora eseguito da Gustav Klimt nel 1917 che era stato appena identificato come la versione riadattata e ridipinta di un’opera del 1910 da sempre reputata perduta del maestro austriaco, riapparve a oltre 23 anni dal furto in una nicchia nella parete esterna della Galleria durante lavori di manutenzione, avvolto da una busta dell’immondizia e – almeno apparentemente – lasciato lì pochi giorni prima del fortunoso ritrovamento, forse proprio dall’autore materiale del furto – reo confesso – per tentar d’ottenere un qualche sconto di pena per pregressi crimini.
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Rimane l’enigma dell’assenza di tracce di scasso o di forzature sulla porta d’accesso al Museo ed il sospetto, più che legittimo, d’un basista interno certamente esperto e per nulla improvvisato.
Ancora una volta, come in una sorta di sordido contrappasso, la pura bellezza dell’Arte è in grado di scatenare – invariabilmente e quasi fatalmente – le bramosie più basse e più prosaiche d’un mondo di fanatici e d’accaparratori senza scrupoli.