Autentica icona di stoicismo dolente e d’attesa senza rassegnazione, che vede un marinaio africano sopravvissuto alla tempesta che ha disalberato la sua imbarcazione da pesca, volgere quasi eroicamente lo sguardo, senza dar attenzione agli squali famelici che si affollano assetati di sangue ai fianchi dello scafo, e che hanno già divorato – con grande probabilità – il resto dell’equipaggio, come sembrano rivelare le chiazze rosse sui flutti del mare in burrasca, la celeberrima tela dell’artista statunitense Winslow Homer ( Boston 1836, Prout’s Neck 1910 ) La Corrente del Golfo, realizzata nel 1899, tanto iconica e mille volte riprodotta in patria quanto sconosciuta, o quasi, in Italia, sembra esser una perfetta epitome ideale delle brutali violenze e del dilagante movimento d’opinione, conseguente all’omicidio dell’afroamericano George Floyd ad opera delle forze di polizia statunitensi.
Homer aveva avuto modo di ritrarre in suggestivi e sorprendentemente realistici acquarelli, scene di combattimento e di retrovie durante la Guerra di Secessione, soprattutto in Virginia, e l’immediatezza e autenticità – spoglia ed antieroica – delle sue immagini aveva saputo trasformare in tele d’intensa e dolente compartecipazione, ma era stato il fondamentale soggiorno di quasi un anno a Parigi, nel 1867, a fargli scoprire – più ancora che la pittura en plen air della neonata corrente Impressionista – la straordinaria arte antiaccademica di Gustave Courbet e di Jean-François Millet, immediatamente adottata come modello d’una innovativa modalità di rapportarsi alla Natura ed al mondo umano senza retorica e senza edulcorazioni.
Già nelle tele che mostravano giovani volontari afroamericani dell’esercito nordista, Homer propose le possibilità e le opportunità d’una auspicata integrazione, ma la sua lettura dell’evento – temuto dai più nonostante il meritorio impegno degli abolizionisti – appare affidata all’apparente neutralità d’una immagine di cronaca, che sembra registrare, con fotografica obiettività ed esemplare distacco, una scena da consegnare alla Storia.
Proprio dalla lezione di Courbet e di Millet, il cui celeberrimo Angelus del 1859 aveva inaugurato una rivoluzionaria modalità d’illustrazione del mondo degli umili, senza paternalismo e senza sentimentalismi ma con calma e compartecipe gravità, Homer aveva appreso il suo caratteristico modo di ritrarre con pacata e ferma adesione emotiva la Natura – metafora d’un fato quasi indifferente all’uomo – e le stesse vicende umane, che fossero guerre fratricide, umili lavori quotidiani o la costante lotta contro gli elementi per conquistare il necessario alla sopravvivenza quotidiana, e ne la Corrente del Golfo, la rappresentazione d’una tragedia imminente sul mare in tempesta, in conseguenza d’una battaglia solitaria contro i marosi e contro gli squali, assume una intensità epica e fatale insieme.
Il pathos impareggiabile della figura del giovane africano, che bilancia col peso del suo corpo il beccheggiare dell’imbarcazione e sembra accettare con eroico e rassegnato fatalismo il destino imminente, lo spettro quasi evanescente d’un veliero – troppo lontano e indifferente per recar salvezza – le fauci irte di denti degli squali, metafora dei mostri e dei demoni che ciascuno incontra nel periglioso cammino dell’esistenza ma che non sembrano fiaccare la determinazione del sopravvissuto, assurgeranno a metafora esemplare del cammino dolente ed umanamente stoico d’una comunità – quella dei discendenti degli antichi schiavi delle piantagioni – in lotta per conquistare, ad onta dei Demoni e delle insidie d’ogni giorno, libertà ed autodeterminazione come diritto naturale…