Una coppa per il re dei re: il Santo Graal fra mito e storia

Un saggi del Prof. Vittorio Maria De Bonis
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Mito e ossessione autentica che attraversa – trasversalmente e senza soluzione di continuità – il mondo occidentale dall’alto Medioevo all’età Contemporanea, il Santo Graal continua a soggiogare, come feticcio d’intere generazioni di visionari e pseudo archeologi, cinema, arte e letteratura.

Da Chrétien de Troyes a Dan Brown, dalla saga di Richard Wagner a Indiana Jones, la leggendaria Coppa che Gesù avrebbe utilizzato per il vino eucaristico nell’Ultima Cena e dove il ricco Giuseppe d’Arimatea avrebbe devotamente raccolto il sangue del Salvatore non cessa di stimolare sogni e fantasie tra fantasy e narrazioni distopiche.

La sua storia

La sua Ricerca – cara ai Cavalieri della Corte di Artù sin dalla fondazione della leggenda bretone – assurgeva a cammino iniziatico e penitenziale, costellato d’insidie mortali e d’altrettanto mortali tentazioni. Solo chi fosse davvero riuscito a spogliarsi d’ogni vanità mondana e d’ogni presunzione aristocratica sarebbe riuscito anche solo a vedere il mitologico Calice, poi, forse, ad aver il privilegio di possederlo.

Ma il Graal non sarebbe mai diventato il bottino di cupidigie terrene: come la sua conquista avrebbe purificato e selezionato i puri di cuore in grado di potersi avvicinare a Lui, così il suo possesso non sarebbe mai stato definitivo e comunque mai frutto di bramosie o sacrilegi commessi nel suo nome.

Non è un caso che il mitizzato Sacro Catino – uno spettacolare vaso esagonale in pasta vitrea verde, di probabile manifattura siriana del I secolo d.C., reputato erroneamente di smeraldo e sottratto dal condottiero di ventura genovese Guglielmo Embriaco durante la presa di Cesarea al tempo della I Crociata – immediatamente creduto l’autentico Graal e conservato nella Cattedrale di Genova, abbia poi deluso le secolari aspettative rivelandosi, appunto di pur magnifico ma prosaico vetro.

Il santo vaso

E se è comunque possibile per ognuno di noi possedere una copia a buon mercato del Graal – il cui nome deriva dal latino medioevale Gradalis col significato di coppa o ampio piatto – con il semplice acquisto d’una Grolla valdostana, il cui nome evoca direttamente il santo vaso, è forse solo una straordinaria trasposizione cinematografica, questa sì davvero efficace e in linea perfettamente col Mito, a rivelarci – con la consueta efficacia immediata di Hollywood – tutta la verità.

Nel kolossal Indiana Jones e l’Ultima Crociata di Steven Spielberg, del 1989, terzo episodio della tetralogia dedicata allo spericolato archeologo ed esploratore, Indiana sarà sulle tracce proprio del Santo Graal, che un sordido avventuriero al soldo dei nazisti intende sottrarre per ordine del Furher, peraltro realmente ossessionato dagli aspetti mistico-esoterici d’un mondo da epopea nordica in attesa d’un nuovo ordine unversale.

Per salvare suo padre, mortalmente ferito proprio dal malvagio agente dei tedeschi e magnificamente interpretato da Sean Connery, Indiana dovrà scegliere, fra decine di coppe auree e sontuosi calici vegliati da un anziano crociato miracolosamente sopravvissuto, l’originale: il cattivo di turno, ingannato da un vaso tempestato di gemme: …Questo è certamente la coppa del Re dei Re berrà in esso l’acqua benedetta della fonte custodita nella grotta del fedele crociato, invecchiando orribilmente e disfacendosi all’istante.

L’archeologo – al contrario – sceglierà oculatamente il calice più umile, in vile terracotta: Questa è la Coppa di un falegname salvando così la vita del padre, e insieme la propria.

Ed ecco – forse – la sola verità: non uno dei tanti, presunti e splendenti vasi, esotici o d’età romana, in agata fasciata o in pietre semipreziose, custoditi in tutte le maggiori Chiese della Cristianità, ma piuttosto un umilissimo manufatto del tutto anonimo e per nulla appariscente sosterrà su di sé, da tempo immemore, tutta la forza – luminosa ed eterna – del Mito.