Divina e profana bellezza: in Vaticano alla scoperta dei suoi tesori

Un saggi del Prof. Vittorio Maria De Bonis
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Scrigno pressoché inesauribile di capolavori d’arte sacra e profana, dal periodo ellenistico-romano alla contemporaneità, in una galleria virtualmente sconfinata e sconcertante – per qualità e rarità dei reperti custoditi – da soggiogare anche il più navigato degli esperti, i Musei vaticani sono solo una parte dei leggendari Tesori del Vaticano.

Vanto e celebrazione del mecenatismo della Chiesa cattolica ed emblema autentico dei suoi privilegi temporali, simbolo di fasto e d’ecumenica ambizione, la collezione d’Arte vaticana è anche e soprattutto la testimonianza dell’impegno già rinascimentale dei pontefici di non disperdere ma anzi di tutelare ad ogni costo i capolavori della cultura non solo italiana.

Con la celebre donazione al Senato Romano – nel 1471, pochissimi mesi dopo la sua ascesa al papato – dei Bronzi antichi conservati al Laterano da parte del pontefice Sisto IV della Rovere, ha letteralmente inizio quella ideale campagna di difesa ed esposizione dei tesori artistici del Passato che inaugura – di fatto – il primo Museo pubblico del mondo.

Attenti a vegliare sull’esportazione clandestina di reperti classici, i Papi contribuirono a rilanciare Roma e la sua storia secolare come immagine simbolica d’una mitica Felix Aetas della quale loro stessi erano difensori,  e gli  ideali prosecutori nel segno di Cristo.

Da Raffaello a Michelangelo, da Bernini a Canova, i pontefici furono i più prestigiosi mecenati e committenti d’opere d’Arte, ma soprattutto quelli dotati in assoluto di maggior liquidità, così da potersi assicurare i migliori artisti e i tempi di esecuzione più rapidi, nonostante rivolgimenti politici, guerre locali ed anche l’eventuale scomparsa dello stesso papa che aveva dato inizio all’impresa artistica.

La spettacolare  avventura della volta della Sistina, cappella privata dell’umanista e ferrigno Sisto IV che già era stata affrescata per suo volere da un’irripetibile team d’artisti eccellenti guidati e coordinati da Perugino, come Botticelli, Ghirlandaio, Luca Signorelli e Pinturicchio, sarà portata a termine trent’anni più tardi da Michelangelo Buonarroti per volere dello stesso nipote di Sisto: Papa Giulio II della Rovere, e poco meno di altri trent’anni dopo – sotto il pontificato di Paolo III Farnese – l’ormai sessantenne Michelangelo concluderà l’epocale decorazione con la sublime parete del Giudizio Universale, mito e ossessione d’ogni devoto dell’Arte.

Appena rinvenuto durante lavori agricoli nella vigna d’un patrizio romano, nel gennaio del 1506, sul Colle Oppio, l’impressionante gruppo scultoreo del Laocoonte – che avrebbe influenzato indelebilmente tutta la scultura europea sino ai giorni nostri – venne immediatamente acquistato da Papa Giulio II come spettacolare ornamento dei Giardini del Belvedere, già progettati appositamente da Donato Bramante per accogliere le collezioni pontificie di statuaria classica.

E sempre il Giulio II – compulsivo raccoglitore d’antichità ellenistico-romane – aveva già acquisito per la sua personale raccolta, quand’era ancora cardinale titolare della basilica di San Pietro in Vincoli, il leggendario Apollo del Belvedere, eccellente copia romana d’una originaria statua in bronzo creata dallo scultore ateniese Leocare intorno al 350 a.C.

Ed è esattamente questa – a ben vedere – la folgorante qualità della chiesa tra Rinascimento ed età barocca: il ritenere che la Classicità, mondo d’idolatri pagani ma straordinari nella maestria dell’Arte e della letteratura, possa ancora offrire un monito irrenunciabile al mondo contemporaneo.

Per utilizzare le parole del mistico e filosofo medioevale Bernardo di Chartres:

… Gli uomini del Passato erano Giganti, in virtù della loro infinita Cultura, Arte e Filosofia. Noi non siamo altro che nani, piccoli e deformi, dimenticata ogni saggezza d’Arte. Ma siamo nani sulle spalle dei Giganti, e meglio di loro possiamo vivere e più di loro guardar lontano…