Autentico Dio fra i Mortali secondo l’ammirata definizione di Giorgio Vasari, alla cui prematura scomparsa – a soli trentasette anni d’età – il mondo dell’Arte europea comprese essersi definitivamente concluso un ciclo d’aurea e irripetibile Bellezza, o meglio di ricerca e conquista d’una compiuta fusione fra canone estetico del Passato e nuove istanze del prossimo Futuro, Raffaello Sanzio da Urbino ritrae durante la sua breve esistenza i protagonisti – letteralmente – di quell’irripetibile stagione della Cultura che continuiamo a definire Rinascimento: dai pontefici ai mecenati, dai porporati agli intellettuali, dai teorici d’arte ai grandi talenti contemporanei, in una sorprendente galleria di celebrità che non ha eguali per qualità, vivezza e persuasività.
Ma la palma spetta – senz’ombra di dubbio – alla spettacolare e dolente effige del bellicoso Giulio II della Rovere, ritratto in un frangente assai dolente e complesso per sé e per l’Italia tutta.

Alleatosi con i francesi di Luigi XII per estromettere i veneziani dai domini della Chiesa che questi avevano abusivamente occupato alla morte dell’odiato predecessore Alessandro VI Borgia, li aveva sì sconfitti, grazie ai potenti alleati stranieri, ma si era ritrovato in compagnia di pericolosi compagni d’avventura ingolositi da possibili conquiste italiane, per tal motivo s’era nuovamente alleato con i veneziani in una Lega Santa che stava tentando – con alterne vicende – di riprender possesso dei territori contesi.
Amareggiato dalle sconfitte subite, e preoccupato per l’indipendenza della Chiesa, Giulio II aveva deciso di farsi crescere la barba come voto e di farsela radere soltanto quando la campagna militare avesse conosciuto una svolta definitivamente positiva per le armate pontifice.
Il capo e lo sguardo insolitamente volti verso il basso e ormai svuotati d’orgoglio, il volto impietosamente segnato dalle sofferenze dell’età e di quegli anni avversi, la bocca piegata in una smorfia d’amara rassegnazione e rappresentata spietatamente come edentula, il rosso squillante del camauro e della sontuosa mozzetta bordata d’ermellino in contrasto con il pallore malinconico dell’incarnato dell’uomo che aveva dominato per quasi dieci anni le sorti politiche e religiose della penisola, ne fanno un’immagine di sconcertante verità psicologia e di profonda introspezione, del tutto inedita per i tradizionali ritratti retoricamente ufficiali.
Davvero degna di quello che contemporanei e posteri avrebbero celebrato come il più Divinodegli artisti d’ogni tempo.